domenica 21 dicembre 2014

Cave panem et... circenses

Usare strenne e auguri per raccattare consensi elettorali è davvero triste… ma è di questo che abbiamo bisogno? Di panem et circenses? Io credo che abbiamo bisogno di imparare ad impastare, infornare e magari anche a coltivare il grano. Credo che dobbiamo affrancarci dai regnanti ed attuare una democrazia in cui siamo noi a decidere i giochi da vedere e magari a scegliere di giocare noi stessi, in prima linea, se ne abbiamo voglia. Basta con le false genuflessioni (che io ammetto solo innanzi a Gesù Cristo), basta con il “vicino o’ re beato cu c’è”. Ci appiattisce, ci svilisce. E poi chi lo dice che il re è il migliore? Marsala è un paese strano. Ricordo che quando ero ancora alle medie mi sentivo circondata da gente più ricca di me. Poi ho scoperto che spesso era una ricchezza più ostentata che reale. Nel senso che, se uno ha la macchina da 200mila euro e ha fatto un leasing che magari non pagherà, o ha i brillanti al collo e debiti anche con il pizzicagnolo…ecco, come dire, non è ricco. Ebbene e se invece ci fosse un passaggio di tendenza nel segno della libertà? se ci sentissimo liberi di dire che facciamo la spesa al discount? Che compriamo i regali di Natale su internet, perché si risparmia? Che…menomale che ci sono i nonni con la pensione? Immaginate la liberazione di smettere di dare valore all’apparenza! Immaginate di risparmiare le energie sprecate a fare i signoroni con le scarpe firmate e il calzini bucati (con la speranza che non ci venga “un colpo di sangue”, come dice sempre mia nonna, ché se ci portano all’ospedale ci toglieranno le scarpe e scopriranno l’inconfessabile segreto). E poi, una volta ammessa la povertà materiale, saremmo costretti a darci da fare per impinguare le sostanze che, a dire il vero, pingui, non lo sono mai state, o quasi. A questo punto il prossimo passo sarà trovare dei rappresentanti rappresentativi, quindi sinceramente poveri di soldi (come la maggior parte degli elettori) e ricchi di volontà e verità. Se poi, alla volontà e alla verità, si aggiunge l’intelligenza e la sanità mentale, allora c’è davvero speranza. Buon Natale

Scritto da Chiara Putaggio
Tratto da itacanotizie.it 
Link originale http://www.itacanotizie.it/cave-panem-etcircenses/

martedì 16 dicembre 2014

Sui bamboccioni d'oggi

Il cortocircuito odierno prende spunto da un articolo pubblicato sul sito de “L'Espresso”, dove la giornalista ci racconta che le selezioni per “giovani neolaureati ad alto potenziale per ricoprire la posizione di sales account in una società leader nel settore delle vernici” in Liguria, Basilicata e Molise da parte di Execo, società che si occupa di selezione e formazione del personale, sono andate tragicamente deserte. I pochi candidati che hanno risposto all'annuncio, contattati dalla stessa Execo, avrebbero poi declinato l'offerta. Paradossale, se consideriamo l'altissimo tasso di disoccupazione giovanile (e non solo) in Italia.

Grattando la superficie della notizia, però, vengono fuori alcuni elementi che ci fanno nascere spontanee delle domande che, forse, la nostra più titolata collega si sarebbe dovuta porre. In primo luogo, manca la controprova, il contraddittorio. Nel pezzo non si sente l'altra campana, i giovani che hanno rifiutato l'allettante contratto di apprendistato che prevedeva, tra l'altro, “22 mila euro lordi l’anno, auto, telefono aziendale e altri benefit”. Possibile che nessuno, ma proprio nessuno, abbia voluto mettersi alla prova, tentare la carta di questo lavoro, se le condizioni del contratto erano queste, così vantaggiose per un ragazzo privo o quasi di esperienza? Ma tant'è, probabile che all'autrice del pezzo non siano stati forniti i nomi dei candidati. La pratica del diniego, che avvalorerebbe la vulgata degli italiani bamboccioni, pare poi molto diffusa, a quanto scrive “L'Espresso”. Il giornale cita infatti casi analoghi di società che dovevano selezionare neolaureati per “una rinomata azienda veneta, operante nel settore della moda” e per la H3G, che addirittura cerca invano un migliaio di commerciali in tutta Italia.

Qui cala un attimo il velo di mistero che avvolge la storia. “Un lavoro non banale, che consiste nel battere a tappeto le piccole e medie aziende del territorio per offrire contratti telefonici”, scrive la giornalista riguardo H3G. Dietro il prestigioso termine inglese di sales account si cela, banalmente, il più classico dei lavori porta a porta. E ci sono altre considerazioni da fare. A parte che conosco fior di laureati, miei ex colleghi universitari, che per sbarcare il lunario hanno chiuso a chiave i loro sogni di giornalisti (entrate vicine allo zero per anni e anni, per molti anche per tutta la carriera) e battono in lungo e in largo la Sicilia e la Lombardia dodici ore al giorno alla ricerca di clienti in cambio di guadagni incerti e nebulose provvigioni. Ma poi, mi chiedo, per rompere le scatole (questo è ciò che appare agli occhi della gente un sales account/venditore, un rompiballe), serve veramente la laurea? Non è lecito aspettarsi che un neolaureato voglia qualcosa in più dalla sua carriera? In un mercato del lavoro che si dice flessibile ma che flessibile non è (se non solo nella durata dei contratti) avere una certa esperienza in un determinato settore ti segna il curriculum, verrai contattato solo per quello. In un certo senso ti limita, ti fotte.

Per vendere non servono altre capacità, soprattutto indole e carattere, affidabilità, che difficilmente si imparano nel corso degli studi universitari? In questo caso rivolgersi esclusivamente ad under 30 non preclude alla stessa azienda che cerca sales account la possibilità di valutare/assumere tutto un bacino di persone che potrebbe fare al caso loro, magari perché capello bianco significa esperienza nel campo della vendita che forse porterebbe contratti/profitto all'azienda stessa? Perché per ricevere un vaffa da una segretaria, da un imprenditore o da un privato che stai disturbando, al telefono, presso l'azienda o a domicilio, una laurea non serve.

Qui non parliamo di storture dell'Università che non forma abbastanza ingegneri e ci riempie invece di dottori in Lettere, Filosofia, Scienze della Comunicazione, per i maghi del fatturato tutta gentaglia che non ha voglia di sgobbare, con la cultura non si mangia, che andassero a zappare i campi piuttosto. Sono i criteri di selezione che non funzionano. Sono le aziende che abusano del lavoro flessibile a non funzionare, perché si sono messe in testa di formare (a costo zero) per posizioni che non necessitano di formazione e di cercare gente già formata per le posizioni dove invece il buon senso vorrebbe che fosse l'azienda stessa a formare (perché ognuna è un microcosmo indipendente, se cambi azienda anche se quel lavoro lo hai già fatto sempre da zero ripartirai). Come non funzionano le agenzie di lavoro interinale, che hanno dei database immensi che non si sa a cosa servano, ai quali non attingono per le loro ricerche, che riempiono giornali e bacheche di siti online con annunci di lavoro fake, agenzie di lavoro interinale le cui sedi della stessa società non comunicano tra loro, proponendo a qualche sventurato disoccupato la stessa proposta di lavoro per mesi, anni, certe volte anche in simultanea. Ma di questo si parlerà in un altro post.

martedì 9 dicembre 2014

Da quando sei diventato un leone?

Amiamo le gogne mediatiche, ci fanno sentire superiori. Organizziamo processi sul web o in tv, in nome di una supposta supremazia morale che chissà chi ci ha conferito. 

Siamo tutti pubblici ministeri. Conosciamo già chi sono i colpevoli. Ci fa comodo dare lezioni agli altri, seduti davanti a una tastiera, ripulisce la coscienza ed esonera dal mettere in pratica quotidianamente ciò che con tanta forza gridiamo nei social network. Ci crogioliamo in lamentele sperticate su questo e quell'altro, ma non facciamo niente di concreto per cambiare le cose. Tanto siamo coraggiosi e spietati davanti a un pc, quanto mansueti e accondiscendenti quando calpestano la nostra dignità nella vita reale.

Siamo voyeur. Ogni tipo di pornografia visiva viene data in pasto al nostro occhio guardone. Mai sazi, ne chiediamo sempre di più, spostando ogni giorno un po' più in là l'asticella della decenza. Godiamo quando, pensando di sapere tutto, ci accorgiamo che quanto abbiamo immaginato, sospettato, insinuato, sentenziato, potrebbe essere realtà: “L'avevo detto io, vedi che avevo ragione?”. Sfoghiamo così la nostra rabbia repressa, con il tiro al bersaglio. Insultiamo, bestemmiamo, protetti da un inesistente anonimato. Ci nascondiamo dietro un dito. 

Cerchiamo sul web un'effimera gloria, condivisione sociale, quel plauso che nelle attività di tutti i giorni non siamo in grado di avere, chiusi in noi stessi, schiavi di egoismi e sconfitti dall'esistenza. Chi non la pensa come noi deve essere dileggiato, sbaragliato, distrutto. Ci indigniamo a corrente alternata, solo nei confronti di ciò che fanno gli altri. Perché noi siamo sempre i migliori. 


"La mia generazione ha un trucco buono
critica tutti per non criticar nessuno
e fa rivoluzioni che non fanno male
così che poi non cambi mai
essere innocui insomma che sennò è volgare
puoi giudicare come sono se vuoi, ma lo sai
Baby fiducia (1999) - Afterhours

venerdì 5 dicembre 2014

Addio Articolo 18

Con l'approvazione da parte del Senato il cosiddetto Jobs act, la delega sul lavoro, è diventato legge. Per capire l'impatto che esso potrà avere sul mercato del lavoro bisognerà aspettare almeno un mesetto, quando arriveranno i decreti attuativi che delineeranno il vero volto della legge. Per il momento possiamo fare solo delle considerazioni. 

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi parla di svolta. Nel nostro piccolo, di precari/disoccupati che toccano con mano storture e difficoltà del mercato del lavoro, ci permettiamo di nutrire forti dubbi. L'impianto del Jobs act in sé non è sbagliato, alcuni dei punti contenuti nella legge ci piacciono anche, vedi il tentativo di eliminare co.co.co e co.co.pro. a favore di forme contrattuali più “garantite”.

Ma ci sono numerosi punti rimasti in sospeso. E, soprattutto, sono tante le domande senza risposta. Il problema dell'occupazione in Italia è l'articolo 18? È l'articolo 18 a frenare assunzioni e investimenti? Ci sembra che tutte le parole che da un anno si riversano sul Jobs act da parte di politici, sindacati ed opinionisti non tengano mai in considerazione il vero nocciolo del problema, nel tentativo di sviarlo, di tenerlo alla larga. Il lavoro non c'è, la produttività latita.

Sì, le leggi sul lavoro vanno bene, il mercato deve essere disciplinato in modo chiaro perché tra le zone d'ombra dell'applicazione delle regole (e pensare che ce ne sono già a migliaia) finora gli imprenditori hanno banchettato sulle spalle dei lavoratori. Ma che senso hanno le regole se prima non si creano le premesse per creare lavoro? Non si venga a dire che è stato l'articolo 18 a tenere lontani dall'Italia gli investitori stranieri. Pensiamo che le cause siano altre, più strutturali. Le tasse troppo elevate che stroncano sul nascere qualsiasi tentativo di fare impresa, per esempio. Le lungaggini burocratiche frutto dell'elefantiaco apparato statale. La pratica della raccomandazione diventata nei decenni sistema, poi cancro. Se non hai una conoscenza, una spintarella, non lavori. Un tempo forse con le tue forze riuscivi, oggi no. Stop.

Detto questo è d'obbligo aggiungere che gli stessi investitori stranieri che in passato hanno aperto fabbriche ed aziende in Italia su questo sistema ci hanno marciato alla grande, beneficiando di sgravi fiscali e scappando all'estero non appena questi sono finiti, lasciandosi dietro solo rabbia e cassa integrazione. Oppure hanno usato il grimaldello della chiusura degli impianti per ricattare i vari governi che si sono succeduti.

Vogliamo riformare veramente il mercato del lavoro? Proponiamo agli imprenditori contratti a tempo indeterminato più convenienti rispetto a quelli a tempo determinato, con un piccolo sacrificio per i lavoratori. Senza esagerare, perché l'unico risultato che porta abbassare i salari è deprimere i consumi interni. Chi ha meno diritti andrebbe pagato di più, per “costringere” il datore di lavoro ad assumere a tempo indeterminato. Attualmente succede proprio il contrario. Abbiamo creato lavoratori di serie A tutelati e che guadagnano di più, e lavoratori di serie B che costano meno e che possono essere lasciati a casa in qualsiasi momento, subito sostituiti da altri precari senza diritti. Un diabolico sistema che invoglia l'imprenditore a mantenere temporanei a vita i lavoratori, che così sono meno costosi. Nessuno avrà interesse ad assumere dipendenti precari se sostituendoli manterrà i benefici di legge che al momento esistono.

L'articolo 18 andava esteso e non tolto. Riformulato, rivoltato come un calzino, ma esteso. I più deboli devono essere protetti e non penalizzati. Da circa quindici anni l'esigenza di flessibilità nel nostro Paese si riflette esclusivamente sui nuovi entranti nel mercato del lavoro. Una generazione di perenni precari senza futuro cui si contrappongono appunto i tutelati. Da una parte quelli che, o per abnegazione personale o perché sotto pressione da parte del datore di lavoro, sostengono la baracca e si fanno il cosiddetto mazzo. Dall'altra quelli che, privi di stimoli ed appagati o sostenuti dalla filosofia del me ne fotto e difesi ad oltranza dallo statuto dei lavoratori (che purtroppo non distingue tra lavoratori e fannulloni), hanno una produttività vicina allo zero. A cui vanno aggiunti anche i lavoratori delle aziende che ormai non producono più ricchezza, che sono da tempo fallite, che non hanno mercato, che non servono a niente, ma che sono diventate un'idrovora di soldi pubblici.

La produttività del Paese è crollata, bisogna aumentarla. Sono i precari che possono farlo. Oggi la loro produttività è bassa. Non per colpa loro, ma perché le aziende non investono su di loro. Stipendi magri, pochi incentivi, scarsa formazione, tante pretese. La gran parte sono laureati, hanno studiato anni, sono giovani. Diamo una chance ai precari, scommettiamo sui loro sogni.

lunedì 24 novembre 2014

Stazione di provincia


La vita di Angelo è tutta lì, sul fondo di una bottiglia. Vino rosso, di quello che costa poco e rincoglionisce tanto. Ubriaco di professione a poco più di cinquant'anni. Mattino, pomeriggio, sera: ogni giorno una ruota che gira uguale. Dopo il tramonto lo trovi alla stazione ferroviaria del paese, appoggiato alla sua bici. Si scola allegro gli ultimi barlumi di lucidità. Additivi chimici addizionati al mosto rendono veleno stordente quello che lui considera nettare. Come faccia ogni sera a tornare incolume a casa su quel trabiccolo a due ruote è mistero poco gaudioso. Angelo non vorrebbe tornare in quel tugurio, sono anni che non vuole più. È vuoto, spogliato di ogni affetto. Moglie e figlio sono andati via, lavoro e dignità scappati insieme a loro. Resta solo il rimpianto, ma Angelo ci sta lavorando. Un'altra bottiglia, una sola, e anche quello sarà un ricordo sbiadito, per questa notte.

Quando Angelo va via, sono le otto di sera, in stazione arriva Andrea. Lui, a differenza del primo, non ha un tetto dove ripararsi. Ventidue anni, ha eletto la sala d'aspetto a casa, una panca di legno a letto. Si siede, distende le gambe, rilassa la schiena, si appisola. Non ha una coperta per ripararsi dal freddo, ma pensa che è giovane, può farcela a resistere. La gente gli passa accanto guardandolo schifata. È sudicio, la sporcizia incrosta la pelle e fa compagnia al puzzo di urina mescolato a quello di birra e sigarette. Punkabbestia, barbone, vagabondo, chiamatelo come preferite. Ad Andrea non importa, le etichette non gli sono mai piaciute. E le altre persone (la "gente normale") lo ripugnano, forse più di quanto lui non faccia loro ribrezzo. Sta sereno, però, le ignora e tiene gli occhi chiusi, a schermare la luce dei neon della sala d'aspetto. Vuole solo dormire, per questa notte.

Vincenzo, per tutti Enzo, li vede entrambi. La mattina alle 7.30, quando va a prendere il treno diretto a Milano, Andrea sta ancora dormendo su quella panchina. La sera, alle 18.30, quando torna in paese dopo una giornata di lavoro, Angelo ha appena iniziato a vuotare la bottiglia. Enzo li odia, perché ha paura. Paura di finire come loro. Solo, abbandonato da tutti. È un precario. Precario del lavoro, precario della vita. L'unica certezza che ha è la data di scadenza sul suo contratto, due mesi a partire da oggi, lavoro a progetto. Con obbligo di presenza in ufficio dalle 9 alle 17.30, ma questo nel contratto non c'è scritto. Zero ferie, zero malattie, tante responsabilità. Un affitto e le bollette da pagare, come tutti. Enzo vede Angelo ed Andrea e si sente sospeso su un filo, come un equilibrista. Forse dopo troverò qualcos'altro, pensa, ho lasciato apposta la Calabria, i miei sforzi saranno premiati. Meglio sognare, per questa notte.

giovedì 20 novembre 2014

I colpevoli sono i morti

Quando diritto e giustizia cozzano, cosa ci resta? Amara rassegnazione, rabbia indignata. Poi basta, poco altro. Impotenza. La notizia che la Corte di Cassazione ha accolto la richiesta del procuratore al processo Eternit, dichiarando la prescrizione per il reato di disastro ambientale doloso a carico del magnate svizzero Stephan Schmidheiny e cancellando così la condanna in secondo grado a 18 anni, ha per molti il sapore dell'ingiustizia e assume i contorni della beffa. Il diritto è salvo.

Nonostante il sostituto procuratore della Suprema Corte Francesco Iacoviello avesse sottolineato come Schmidheiny fosse “responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte”, ha dovuto chiedere lui stesso che fosse prescritto il reato (i fatti si riferiscono a più di trent'anni fa, gli stabilimenti sono chiusi dal 1986), ammettendo che “un giudice tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto”. Cancellando anche i risarcimenti per i familiari delle vittime e per le comunità locali flagellate dai danni provocati dall'amianto. “Non erano oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologie sopravvenute”, sottolinea un comunicato della Corte Suprema dopo l'ondata di sdegno che la sentenza ha suscitato.

In Italia non c'è solo la terra dei fuochi, c'è anche la terra del mesotelioma. Si trova in Piemonte, tra Casale Monferrato, sede della fabbrica dei veleni, e la cava di Balangero, la più grande d'Europa. Tra gli anni '60 e '90 abbiamo riempito il nostro Paese con l'Eternit: lastre, tegole, vasche per la raccolta dell'acqua e tubi. Solo nel 1992 venne vietata l'attività di estrazione, importazione ed esportazione, produzione e commercializzazione dell'amianto e dei prodotti che lo contengono. Il danno ormai era fatto.

Ecco rilanciato il dibattito sulla prescrizione, buono per alimentare le vibranti dichiarazioni dei politici e degli opinionisti. Questa fiamma brucerà sugli altari dei mass media per qualche giorno per poi spegnersi improvvisamente, fino alla prossima sentenza.

Restano in piedi le inchieste sui decessi degli operai, dei loro familiari, dei cittadini esposti al pericoloso minerale. Migliaia di morti e altrettanti malati, chissà quanti ancora, la polvere dell'amianto allunga la sua ombra sulle generazioni future. Il picco delle vittime è previsto per il 2025, le malattie da amianto possono manifestarsi dopo molti anni, a volte anche 40 dalla prima esposizione. La morte non conosce diritto, né si prescrive.

lunedì 17 novembre 2014

Guerra tra poveri

Siamo nel pieno di una guerra. Tappiamoci gli occhi, neghiamo l'evidenza, ma ci siamo dentro fino al collo. Ed è una guerra tra poveri. Poveri che per una generazione si sono illusi di avere svoltato, di essersi messi alle spalle difficoltà e stenti.

Abbiamo conosciuto il benessere. Carne a tavola un giorno sì e l'altro pure, l'auto nuova, vestiti firmati e l'ultimo modello di smartphone. Facciamo i conti con decenni di appagamento dei sensi e di ogni capriccio. Tornare indietro diventa problematico, se non addirittura impossibile. Decadenza. Chi lo spiega a giovani cresciuti tra feticci e status symbol che niente sarà più come prima?

Le periferie bruciano, è caccia al diverso, allo straniero. Si cercano facili colpevoli. Ci rubiamo tutto, finanche la casa. Fotti o sarai fottuto. Siamo in competizione per lavori senza futuro, spesso senza nemmeno la gratificazione di uno stipendio. Sopravviviamo in mezzo a veleni e maleducazione, ruberie e corruzione, violenza e degrado.

Chi dovrebbe trovare le soluzioni per questo letamaio si trastulla tra salotti televisivi e cinguettii. Lo scaricabarile è sport che contempla in Italia svariati campioni mondiali, ciechi nel loro narciso compiacimento. Il virus contagia tutti, anche chi doveva portare una ventata nuova. Quale sarà il nostro futuro?

mercoledì 12 novembre 2014

Tutti a 90°

Il mercato del lavoro in Italia è poco flessibile. Questa barzelletta la sentiamo dalla fine degli anni '90. In quel periodo storico tale formuletta, che poi è diventata mantra per politici, imprenditori e giuslavoristi, poteva anche avere un senso. C'era da una parte il settore privato, impastoiato dalle legittime tutele ottenute dai lavoratori dopo anni di lotte sindacali ed indebolito dalla spietata concorrenza nata dalla globalizzazione del mercato. Dall'altra parte, un settore pubblico saturo a dismisura dopo decenni di assunzioni facili. E nel pubblico, di ogni ordine e grado, i posti non bastavano mai. Da qui l'invenzione di scivoli e prepensionamenti (ancora all'inizio degli anni '90 migliaia di quarantenni mandati a casa dopo appena vent'anni di contributi versati), per fare posto a nuove assunzioni. Finché la pacchia non è finita.

Noi italiani, che non amiamo le mezze misure, siamo passati da un eccesso ad un altro. Dal Bengodi a Zozzolandia, passando dalla condizione Repubblica delle banane. Per restare competitivi nei confronti delle imprese estere ed eliminare una parte degli sprechi che gravano sul bilancio di Enti pubblici, partecipate ed affini, abbiamo accolto anche nel nostro Paese il concetto di lavoro flessibile. Declinato alla nostra maniera, ovviamente. Come? A futti cumpagnu. Tagliando tutto quanto di buono c'è nel significato di flessibilità e nella sua applicazione (sì vi assicuro che qualcosa di buono esiste, il tempo indeterminato è sì bene, ma non è il bene assoluto) e lasciando solo le parti più amare nel piatto dei lavoratori. Che masticano e sputano, masticano e sputano, fino a perdere tutti i denti. Travolti da una valanga di sigle come co.co.co e co.co.pro., finti lavori a progetto e partite IVA farlocche.

Oggi siamo poco flessibili? Possiamo dirlo con certezza? Conosco lavoratori talmente flessibili da far impallidire la contorsionista spagnola amante del conte Mascetti. Con l'aggravante suprema, solo parzialmente giustificata dalla crisi economica (un giorno bisognerà discutere anche di questo, personalmente ho perso la memoria della prima volta in cui ho sentito dire che l'economia occidentale è in “crisi”, un altro slogan che circola come minimo dalle settimane successive agli attentati dell'11 settembre 2001). Quale? Abbiamo massacrato una nazione produttiva, spazzato via ogni forma di solidarietà, tuttavia senza riuscire ad essere più competitivi nei confronti delle imprese estere, che ci stanno fagocitando/cancellando dal mercato, e senza migliorare di una virgola la condizione dei conti pubblici.

Fallimento su tutta la linea. O forse no? I ricchi sono rimasti comunque ricchi, anzi sono un po' più ricchi. Il profitto, gente! E gli altri? I poveri sono rimasti poveri, con il cellulare di nuova generazione e la pay-tv è vero, ma comunque un po' più poveri. Il ceto medio, una sottile linea che si va sempre più assottigliando. Adesso aspettiamo il Jobs Act.

Furbo l'imprenditore, geniale il politico, entrambi fulgidi nel loro italico splendore.

Ps Questo post, pur superando ampiamente le cinquanta righe, è molto sintetico, accenna e non spiega, tralascia molte problematiche. Ne sono perfettamente consapevole. Questo scritto vuole solo gettare le basi ad una serie di futuri interventi nei quali tratterò le storture odierne del mercato del lavoro, non da un punto di vista teorico/economico ma attraverso testimonianze ed esperienze di vita vissuta.

lunedì 10 novembre 2014

Ri-Partenza bis

Settembre 2012, linea telefonica rovente sull'asse Palermo-Milano. 

“Dai Domenico, stiamo andando bene, siamo ancora un po' appannati, scriviamo pochino, ma tanto chi se ne fotte. Miglioreremo. Questo è un blog! E alla fine sai che conta? Scrivere quando ne abbiamo voglia”. 

“Sì Salvo, hai ragione. Mica deve diventare una schiavitù. Scriviamo quando ne abbiamo voglia, questo conta”.

Maggio 2013, la linea resta incandescente, ma si parla per lo più di altro, eventi importanti si profilano all'orizzonte. Ogni tanto riaffiora nei ricordi dei due protagonisti che ci sarebbe anche un blog da aggiornare. 

“Dai Salvo, ok che abbiamo un bel chiffari, ma ogni tanto un post lo potremmo pubblicare! A questo proposito stavo pensando di lanciare qualche bella rubrica, seminare degli spunti interessanti. Ricordando comunque che questo è un blog, non deve diventare una schiavitù, dobbiamo scrivere quando ne abbiamo voglia”. 

“Sì Dome, hai ragione. Ricominciamo a scrivere, bella l'idea delle rubriche, la prossima volta che ci sentiamo me la spieghi meglio. La parola d'ordine è: scriviamo quando ne abbiamo voglia”.

Settembre 2013, delle rubriche si è persa traccia, le ore scorrono liete tra una strategia fantacalcistica e il tipico cazzeggio pseudofilosofico che tormenta i trentenni. Le linee si intasano di discorsi da caffè. “Scriviamo quando ne abbiamo voglia”, dicevano i due sventurati. Propositi durati lo spazio di un amen e, si badi bene, i nostri non sono certo quello che si dice timorati di Dio.

Novembre 2014. Il freddo dell'autunno lombardo ossigena il cervello ed instilla buoni propositi. L'indignazione rimette in moto idee per troppo tempo anestetizzate dalla pigrizia. Si spera che dalle parti della Brianza sia la volta decisiva. Aspettiamo l'arrivo del freddo anche in Sicilia per sapere se le marce saranno tutte ingranate, o se andremo ancora a scartamento ridotto. L'importante è scrivere. Quando se ne ha voglia, ovviamente.