Usare strenne e auguri per raccattare consensi elettorali è davvero
triste… ma è di questo che abbiamo bisogno? Di panem et circenses? Io
credo che abbiamo bisogno di imparare ad impastare, infornare e magari
anche a coltivare il grano. Credo che dobbiamo affrancarci dai regnanti
ed attuare una democrazia in cui siamo noi a decidere i giochi da vedere
e magari a scegliere di giocare noi stessi, in prima linea, se ne
abbiamo voglia. Basta con le false genuflessioni (che io ammetto solo
innanzi a Gesù Cristo), basta con il “vicino o’ re beato cu c’è”. Ci
appiattisce, ci svilisce. E poi chi lo dice che il re è il migliore?
Marsala è un paese strano. Ricordo che quando ero ancora alle medie mi
sentivo circondata da gente più ricca di me. Poi ho scoperto che spesso
era una ricchezza più ostentata che reale. Nel senso che, se uno ha la
macchina da 200mila euro e ha fatto un leasing che magari non pagherà, o
ha i brillanti al collo e debiti anche con il pizzicagnolo…ecco, come
dire, non è ricco. Ebbene e se invece ci fosse un passaggio di tendenza
nel segno della libertà? se ci sentissimo liberi di dire che facciamo la
spesa al discount? Che compriamo i regali di Natale su internet, perché
si risparmia? Che…menomale che ci sono i nonni con la pensione?
Immaginate la liberazione di smettere di dare valore all’apparenza!
Immaginate di risparmiare le energie sprecate a fare i signoroni con le
scarpe firmate e il calzini bucati (con la speranza che non ci venga “un
colpo di sangue”, come dice sempre mia nonna, ché se ci portano
all’ospedale ci toglieranno le scarpe e scopriranno l’inconfessabile
segreto). E poi, una volta ammessa la povertà materiale, saremmo
costretti a darci da fare per impinguare le sostanze che, a dire il
vero, pingui, non lo sono mai state, o quasi. A questo punto il prossimo
passo sarà trovare dei rappresentanti rappresentativi, quindi
sinceramente poveri di soldi (come la maggior parte degli elettori) e
ricchi di volontà e verità. Se poi, alla volontà e alla verità, si
aggiunge l’intelligenza e la sanità mentale, allora c’è davvero
speranza. Buon Natale
Scritto da Chiara Putaggio
Tratto da itacanotizie.it
Link originale http://www.itacanotizie.it/cave-panem-etcircenses/
domenica 21 dicembre 2014
martedì 16 dicembre 2014
Sui bamboccioni d'oggi
Il cortocircuito odierno prende spunto
da un articolo pubblicato sul sito de “L'Espresso”, dove la
giornalista ci racconta che le selezioni per “giovani neolaureati
ad alto potenziale per ricoprire la posizione di sales account in una
società leader nel settore delle vernici” in Liguria, Basilicata e
Molise da parte di Execo, società che si occupa di selezione e
formazione del personale, sono andate tragicamente deserte. I pochi
candidati che hanno risposto all'annuncio, contattati dalla stessa
Execo, avrebbero poi declinato l'offerta. Paradossale, se
consideriamo l'altissimo tasso di disoccupazione giovanile (e non
solo) in Italia.
Grattando la superficie della notizia,
però, vengono fuori alcuni elementi che ci fanno nascere spontanee
delle domande che, forse, la nostra più titolata collega si sarebbe
dovuta porre. In primo luogo, manca la controprova, il
contraddittorio. Nel pezzo non si sente l'altra campana, i giovani
che hanno rifiutato l'allettante contratto di apprendistato che
prevedeva, tra l'altro, “22
mila euro lordi l’anno, auto, telefono aziendale e altri benefit”.
Possibile che nessuno, ma proprio nessuno, abbia voluto mettersi alla
prova, tentare la carta di questo lavoro, se le condizioni del
contratto erano queste, così vantaggiose per un ragazzo privo o
quasi di esperienza? Ma tant'è, probabile che all'autrice del pezzo non siano stati forniti i nomi dei candidati. La pratica del diniego, che avvalorerebbe la
vulgata degli italiani bamboccioni, pare poi molto diffusa, a quanto
scrive “L'Espresso”. Il giornale cita infatti casi analoghi di
società che dovevano selezionare neolaureati per “una rinomata
azienda veneta, operante nel settore della moda” e per la H3G, che
addirittura cerca invano un migliaio di commerciali in tutta Italia.
Qui
cala un attimo il velo di mistero che avvolge la storia. “Un lavoro
non banale, che consiste nel battere a tappeto le piccole e medie
aziende del territorio per offrire contratti telefonici”, scrive la
giornalista riguardo H3G. Dietro il prestigioso termine inglese di
sales account si cela, banalmente, il più classico dei lavori porta
a porta. E ci sono altre considerazioni da fare. A parte che conosco
fior di laureati, miei ex colleghi universitari, che per sbarcare il
lunario hanno chiuso a chiave i loro sogni di giornalisti (entrate
vicine allo zero per anni e anni, per molti anche per tutta la
carriera) e battono in lungo e in largo la Sicilia e la Lombardia
dodici ore al giorno alla ricerca di clienti in cambio di guadagni
incerti e nebulose provvigioni. Ma poi, mi chiedo, per rompere le
scatole (questo è ciò che appare agli occhi della gente un sales
account/venditore, un rompiballe), serve veramente la laurea? Non è
lecito aspettarsi che un neolaureato voglia qualcosa in più dalla
sua carriera? In un mercato del lavoro che si dice flessibile ma che
flessibile non è (se non solo nella durata dei contratti) avere una
certa esperienza in un determinato settore ti segna il curriculum,
verrai contattato solo per quello. In un certo senso ti limita, ti
fotte.
Per
vendere non servono altre capacità, soprattutto indole e carattere,
affidabilità, che difficilmente si imparano nel corso degli studi
universitari? In questo caso rivolgersi esclusivamente ad under 30
non preclude alla stessa azienda che cerca sales account la
possibilità di valutare/assumere tutto un bacino di persone che
potrebbe fare al caso loro, magari perché capello bianco significa
esperienza nel campo della vendita che forse porterebbe
contratti/profitto all'azienda stessa? Perché per ricevere un vaffa
da una segretaria, da un imprenditore o da un privato che stai
disturbando, al telefono, presso l'azienda o a domicilio, una laurea
non serve.
Qui
non parliamo di storture dell'Università che non forma abbastanza
ingegneri e ci riempie invece di dottori in Lettere, Filosofia,
Scienze della Comunicazione, per i maghi del fatturato tutta
gentaglia che non ha voglia di sgobbare, con la cultura non si
mangia, che andassero a zappare i campi piuttosto. Sono i criteri di
selezione che non funzionano. Sono le aziende che abusano del lavoro flessibile a non funzionare,
perché si sono messe in testa di formare (a costo zero) per posizioni
che non necessitano di formazione e di cercare gente già formata per
le posizioni dove invece il buon senso vorrebbe che fosse l'azienda
stessa a formare (perché ognuna è un microcosmo indipendente, se
cambi azienda anche se quel lavoro lo hai già fatto sempre da zero
ripartirai). Come non funzionano le agenzie di lavoro interinale, che
hanno dei database immensi che non si sa a cosa servano, ai quali non
attingono per le loro ricerche, che riempiono giornali e bacheche di
siti online con annunci di lavoro fake, agenzie di lavoro interinale
le cui sedi della stessa società non comunicano tra loro, proponendo
a qualche sventurato disoccupato la stessa proposta di lavoro per
mesi, anni, certe volte anche in simultanea. Ma di questo si parlerà
in un altro post.
martedì 9 dicembre 2014
Da quando sei diventato un leone?
Amiamo le gogne mediatiche, ci
fanno sentire superiori. Organizziamo processi sul web o in tv, in
nome di una supposta supremazia morale che chissà chi ci ha
conferito.
Siamo tutti pubblici ministeri.
Conosciamo già chi sono i colpevoli. Ci fa comodo dare lezioni agli
altri, seduti davanti a una tastiera, ripulisce la coscienza ed
esonera dal mettere in pratica quotidianamente ciò che con tanta
forza gridiamo nei social network. Ci crogioliamo in lamentele
sperticate su questo e quell'altro, ma non facciamo niente di
concreto per cambiare le cose. Tanto siamo coraggiosi e spietati
davanti a un pc, quanto mansueti e accondiscendenti quando calpestano
la nostra dignità nella vita reale.
Siamo voyeur. Ogni tipo di
pornografia visiva viene data in pasto al nostro occhio guardone. Mai
sazi, ne chiediamo sempre di più, spostando ogni giorno un po' più
in là l'asticella della decenza. Godiamo quando, pensando di sapere
tutto, ci accorgiamo che quanto abbiamo immaginato, sospettato,
insinuato, sentenziato, potrebbe essere realtà: “L'avevo detto io,
vedi che avevo ragione?”. Sfoghiamo così la nostra rabbia
repressa, con il tiro al bersaglio. Insultiamo, bestemmiamo, protetti
da un inesistente anonimato. Ci nascondiamo dietro un dito.
Cerchiamo sul web un'effimera
gloria, condivisione sociale, quel plauso che nelle attività di
tutti i giorni non siamo in grado di avere, chiusi in noi stessi,
schiavi di egoismi e sconfitti dall'esistenza. Chi non la pensa
come noi deve essere dileggiato, sbaragliato, distrutto. Ci
indigniamo a corrente alternata, solo nei confronti di ciò che fanno
gli altri. Perché noi siamo sempre i migliori.
"La mia generazione ha un trucco buono
critica tutti per non criticar nessuno
e fa rivoluzioni che non fanno male
così che poi non cambi mai
essere innocui insomma che sennò è volgare
puoi giudicare come sono se vuoi, ma lo sai"
critica tutti per non criticar nessuno
e fa rivoluzioni che non fanno male
così che poi non cambi mai
essere innocui insomma che sennò è volgare
puoi giudicare come sono se vuoi, ma lo sai"
Baby fiducia (1999) - Afterhours
venerdì 5 dicembre 2014
Addio Articolo 18
Con l'approvazione da parte del Senato
il cosiddetto Jobs act, la delega sul lavoro, è diventato legge. Per
capire l'impatto che esso potrà avere sul mercato del lavoro
bisognerà aspettare almeno un mesetto, quando arriveranno i decreti
attuativi che delineeranno il vero volto della legge. Per il momento possiamo fare solo delle
considerazioni.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi parla di
svolta. Nel nostro piccolo, di precari/disoccupati che toccano con
mano storture e difficoltà del mercato del lavoro, ci permettiamo di
nutrire forti dubbi. L'impianto del Jobs act in sé non è sbagliato,
alcuni dei punti contenuti nella legge ci piacciono anche, vedi il
tentativo di eliminare co.co.co e co.co.pro. a favore di forme
contrattuali più “garantite”.
Ma ci sono numerosi punti rimasti in
sospeso. E, soprattutto, sono tante le domande senza risposta. Il
problema dell'occupazione in Italia è l'articolo 18? È l'articolo
18 a frenare assunzioni e investimenti? Ci sembra che tutte le parole
che da un anno si riversano sul Jobs act da parte di politici,
sindacati ed opinionisti non tengano mai in considerazione il vero
nocciolo del problema, nel tentativo di sviarlo, di tenerlo alla
larga. Il lavoro non c'è, la produttività latita.
Sì, le leggi sul lavoro vanno bene, il
mercato deve essere disciplinato in modo chiaro perché tra le zone
d'ombra dell'applicazione delle regole (e pensare che ce ne sono già
a migliaia) finora gli imprenditori hanno banchettato sulle spalle
dei lavoratori. Ma che senso hanno le regole se prima non si creano
le premesse per creare lavoro? Non si venga a dire che è stato
l'articolo 18 a tenere lontani dall'Italia gli investitori stranieri.
Pensiamo che le cause siano altre, più strutturali. Le tasse troppo
elevate che stroncano sul nascere qualsiasi tentativo di fare
impresa, per esempio. Le lungaggini burocratiche frutto
dell'elefantiaco apparato statale. La pratica della raccomandazione
diventata nei decenni sistema, poi cancro. Se non hai una conoscenza,
una spintarella, non lavori. Un tempo forse con le tue forze
riuscivi, oggi no. Stop.
Detto questo è d'obbligo aggiungere
che gli stessi investitori stranieri che in passato hanno aperto
fabbriche ed aziende in Italia su questo sistema ci hanno marciato
alla grande, beneficiando di sgravi fiscali e scappando all'estero
non appena questi sono finiti, lasciandosi dietro solo rabbia e cassa
integrazione. Oppure hanno usato il grimaldello della chiusura degli
impianti per ricattare i vari governi che si sono succeduti.
Vogliamo riformare veramente il mercato
del lavoro? Proponiamo agli imprenditori contratti a tempo
indeterminato più convenienti rispetto a quelli a tempo determinato,
con un piccolo sacrificio per i lavoratori. Senza esagerare, perché
l'unico risultato che porta abbassare i salari è deprimere i consumi
interni. Chi ha meno diritti andrebbe pagato di più, per
“costringere” il datore di lavoro ad assumere a tempo
indeterminato. Attualmente succede proprio il contrario. Abbiamo
creato lavoratori di serie A tutelati e che guadagnano di più, e
lavoratori di serie B che costano meno e che possono essere lasciati
a casa in qualsiasi momento, subito sostituiti da altri precari senza
diritti. Un diabolico sistema che invoglia l'imprenditore a mantenere
temporanei a vita i lavoratori, che così sono meno costosi. Nessuno
avrà interesse ad assumere dipendenti precari se sostituendoli
manterrà i benefici di legge che al momento esistono.
L'articolo 18 andava esteso e non
tolto. Riformulato, rivoltato come un calzino, ma esteso. I più
deboli devono essere protetti e non penalizzati. Da circa quindici
anni l'esigenza di flessibilità nel nostro Paese si riflette
esclusivamente sui nuovi entranti nel mercato del lavoro. Una
generazione di perenni precari senza futuro cui si contrappongono
appunto i tutelati. Da una parte quelli che, o per abnegazione
personale o perché sotto pressione da parte del datore di lavoro,
sostengono la baracca e si fanno il cosiddetto mazzo. Dall'altra
quelli che, privi di stimoli ed appagati o sostenuti dalla filosofia
del me ne fotto e difesi ad oltranza dallo statuto dei lavoratori
(che purtroppo non distingue tra lavoratori e fannulloni), hanno una
produttività vicina allo zero. A cui vanno aggiunti anche i
lavoratori delle aziende che ormai non producono più ricchezza, che
sono da tempo fallite, che non hanno mercato, che non servono a
niente, ma che sono diventate un'idrovora di soldi pubblici.
La produttività del Paese è crollata,
bisogna aumentarla. Sono i precari che possono farlo. Oggi la loro
produttività è bassa. Non per colpa loro, ma perché le aziende non
investono su di loro. Stipendi magri, pochi incentivi, scarsa formazione, tante
pretese. La gran parte sono laureati, hanno studiato anni, sono
giovani. Diamo una chance ai precari, scommettiamo sui loro sogni.
lunedì 24 novembre 2014
Stazione di provincia
La vita di Angelo è tutta lì, sul fondo di una bottiglia. Vino rosso, di quello che costa poco e rincoglionisce tanto. Ubriaco di professione a poco più di cinquant'anni. Mattino, pomeriggio, sera: ogni giorno una ruota che gira uguale. Dopo il tramonto lo trovi alla stazione ferroviaria del paese, appoggiato alla sua bici. Si scola allegro gli ultimi barlumi di lucidità. Additivi chimici addizionati al mosto rendono veleno stordente quello che lui considera nettare. Come faccia ogni sera a tornare incolume a casa su quel trabiccolo a due ruote è mistero poco gaudioso. Angelo non vorrebbe tornare in quel tugurio, sono anni che non vuole più. È vuoto, spogliato di ogni affetto. Moglie e figlio sono andati via, lavoro e dignità scappati insieme a loro. Resta solo il rimpianto, ma Angelo ci sta lavorando. Un'altra bottiglia, una sola, e anche quello sarà un ricordo sbiadito, per questa notte.
Quando Angelo va via, sono le otto di
sera, in stazione arriva Andrea. Lui, a differenza del primo, non ha
un tetto dove ripararsi. Ventidue anni, ha eletto la sala d'aspetto a
casa, una panca di legno a letto. Si siede, distende le gambe,
rilassa la schiena, si appisola. Non ha una coperta per ripararsi dal
freddo, ma pensa che è giovane, può farcela a resistere. La gente
gli passa accanto guardandolo schifata. È sudicio, la sporcizia
incrosta la pelle e fa compagnia al puzzo di urina mescolato a quello
di birra e sigarette. Punkabbestia, barbone, vagabondo, chiamatelo
come preferite. Ad Andrea non importa, le etichette non gli sono mai
piaciute. E le altre persone (la "gente normale") lo ripugnano,
forse più di quanto lui non faccia loro ribrezzo. Sta sereno, però,
le ignora e tiene gli occhi chiusi, a schermare la luce dei neon
della sala d'aspetto. Vuole solo dormire, per questa notte.
Vincenzo, per tutti Enzo, li vede
entrambi. La mattina alle 7.30, quando va a prendere il treno diretto
a Milano, Andrea sta ancora dormendo su quella panchina. La sera,
alle 18.30, quando torna in paese dopo una giornata di lavoro, Angelo
ha appena iniziato a vuotare la bottiglia. Enzo li odia, perché ha
paura. Paura di finire come loro. Solo, abbandonato da tutti. È un
precario. Precario del lavoro, precario della vita. L'unica certezza
che ha è la data di scadenza sul suo contratto, due mesi a partire
da oggi, lavoro a progetto. Con obbligo di presenza in ufficio dalle
9 alle 17.30, ma questo nel contratto non c'è scritto. Zero ferie,
zero malattie, tante responsabilità. Un affitto e le bollette da
pagare, come tutti. Enzo vede Angelo ed Andrea e si sente sospeso su
un filo, come un equilibrista. Forse dopo troverò qualcos'altro,
pensa, ho lasciato apposta la Calabria, i miei sforzi saranno
premiati. Meglio sognare, per questa notte.
giovedì 20 novembre 2014
I colpevoli sono i morti
Quando diritto e giustizia cozzano,
cosa ci resta? Amara rassegnazione, rabbia indignata. Poi basta, poco
altro. Impotenza. La notizia che la Corte di Cassazione ha accolto la
richiesta del procuratore al processo Eternit, dichiarando la
prescrizione per il reato di disastro ambientale doloso a carico del
magnate svizzero Stephan Schmidheiny e cancellando così la condanna
in secondo grado a 18 anni, ha per molti il sapore dell'ingiustizia e assume i
contorni della beffa. Il diritto è salvo.
Nonostante il sostituto procuratore
della Suprema Corte Francesco
Iacoviello avesse
sottolineato come
Schmidheiny fosse “responsabile di tutte le condotte che gli
sono state ascritte”, ha dovuto chiedere lui stesso che fosse
prescritto il reato (i fatti si riferiscono a più di trent'anni fa,
gli stabilimenti sono chiusi dal 1986), ammettendo che “un giudice
tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto”. Cancellando anche i risarcimenti per i familiari delle vittime e per le comunità
locali flagellate dai danni provocati dall'amianto. “Non erano
oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologie
sopravvenute”, sottolinea un comunicato della Corte Suprema dopo
l'ondata di sdegno che la sentenza ha suscitato.
In Italia non c'è solo la terra dei
fuochi, c'è anche la terra del mesotelioma. Si trova in Piemonte,
tra Casale Monferrato, sede della fabbrica dei veleni, e la cava di
Balangero, la più grande d'Europa. Tra gli anni '60 e '90 abbiamo riempito il nostro Paese
con l'Eternit: lastre, tegole, vasche per la raccolta dell'acqua e
tubi. Solo nel 1992 venne vietata l'attività di estrazione,
importazione ed esportazione, produzione e commercializzazione
dell'amianto e dei prodotti che lo contengono. Il danno ormai era
fatto.
Ecco rilanciato il dibattito sulla
prescrizione, buono per alimentare le vibranti dichiarazioni dei politici e
degli opinionisti. Questa fiamma brucerà sugli altari dei mass media
per qualche giorno per poi spegnersi improvvisamente, fino alla
prossima sentenza.
Restano in piedi le inchieste sui
decessi degli operai, dei loro familiari, dei cittadini esposti al
pericoloso minerale. Migliaia di morti e altrettanti malati, chissà
quanti ancora, la polvere dell'amianto allunga la sua ombra sulle
generazioni future. Il picco delle vittime è previsto per il 2025,
le malattie da amianto possono manifestarsi dopo molti anni, a volte
anche 40 dalla prima esposizione. La morte non conosce diritto, né
si prescrive.
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lunedì 17 novembre 2014
Guerra tra poveri
Siamo nel pieno di una guerra.
Tappiamoci gli occhi, neghiamo l'evidenza, ma ci siamo dentro fino al
collo. Ed è una guerra tra poveri. Poveri che per una generazione si
sono illusi di avere svoltato, di essersi messi alle spalle
difficoltà e stenti.
Abbiamo conosciuto il benessere. Carne
a tavola un giorno sì e l'altro pure, l'auto nuova, vestiti firmati
e l'ultimo modello di smartphone. Facciamo i conti con decenni di
appagamento dei sensi e di ogni capriccio. Tornare indietro diventa
problematico, se non addirittura impossibile. Decadenza. Chi lo
spiega a giovani cresciuti tra feticci e status symbol che niente
sarà più come prima?
Le periferie bruciano, è caccia al
diverso, allo straniero. Si cercano facili colpevoli. Ci rubiamo
tutto, finanche la casa. Fotti o sarai fottuto. Siamo in competizione
per lavori senza futuro, spesso senza nemmeno la gratificazione di
uno stipendio. Sopravviviamo in mezzo a veleni e maleducazione,
ruberie e corruzione, violenza e degrado.
Chi dovrebbe trovare le soluzioni per
questo letamaio si trastulla tra salotti televisivi e cinguettii. Lo
scaricabarile è sport che contempla in Italia svariati campioni
mondiali, ciechi nel loro narciso compiacimento. Il virus contagia
tutti, anche chi doveva portare una ventata nuova. Quale sarà il
nostro futuro?
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mercoledì 12 novembre 2014
Tutti a 90°
Il mercato del lavoro in Italia è poco
flessibile. Questa barzelletta la sentiamo dalla fine degli anni '90.
In quel periodo storico tale formuletta, che poi è diventata mantra
per politici, imprenditori e giuslavoristi, poteva anche avere un
senso. C'era da una parte il settore privato, impastoiato dalle
legittime tutele ottenute dai lavoratori dopo anni di lotte sindacali
ed indebolito dalla spietata concorrenza nata dalla globalizzazione
del mercato. Dall'altra parte, un settore pubblico saturo a dismisura
dopo decenni di assunzioni facili. E nel pubblico, di ogni ordine e
grado, i posti non bastavano mai. Da qui l'invenzione di scivoli e
prepensionamenti (ancora all'inizio degli anni '90 migliaia di
quarantenni mandati a casa dopo appena vent'anni di contributi
versati), per fare posto a nuove assunzioni. Finché la pacchia non è
finita.
Noi italiani, che non amiamo le mezze
misure, siamo passati da un eccesso ad un altro. Dal Bengodi a
Zozzolandia, passando dalla condizione Repubblica delle banane. Per
restare competitivi nei confronti delle imprese estere ed eliminare
una parte degli sprechi che gravano sul bilancio di Enti pubblici,
partecipate ed affini, abbiamo accolto anche nel nostro Paese il
concetto di lavoro flessibile. Declinato alla nostra maniera,
ovviamente. Come? A futti cumpagnu. Tagliando tutto quanto di buono
c'è nel significato di flessibilità e nella sua applicazione (sì
vi assicuro che qualcosa di buono esiste, il tempo indeterminato è
sì bene, ma non è il bene assoluto) e lasciando solo le parti più
amare nel piatto dei lavoratori. Che masticano e sputano, masticano e
sputano, fino a perdere tutti i denti. Travolti da una valanga di
sigle come co.co.co e co.co.pro., finti lavori a progetto e partite
IVA farlocche.
Oggi siamo poco flessibili? Possiamo
dirlo con certezza? Conosco lavoratori talmente flessibili da far
impallidire la contorsionista spagnola amante del conte Mascetti. Con l'aggravante suprema, solo parzialmente giustificata
dalla crisi economica (un giorno bisognerà discutere anche di
questo, personalmente ho perso la memoria della prima volta in cui ho
sentito dire che l'economia occidentale è in “crisi”, un altro
slogan che circola come minimo dalle settimane successive agli
attentati dell'11 settembre 2001). Quale? Abbiamo massacrato una
nazione produttiva, spazzato via ogni forma di solidarietà, tuttavia
senza riuscire ad essere più competitivi nei confronti delle imprese
estere, che ci stanno fagocitando/cancellando dal mercato, e senza
migliorare di una virgola la condizione dei conti pubblici.
Fallimento su tutta la linea. O forse
no? I ricchi sono rimasti comunque ricchi, anzi sono un po' più
ricchi. Il profitto, gente! E gli altri? I poveri sono rimasti
poveri, con il cellulare di nuova generazione e la pay-tv è vero, ma
comunque un po' più poveri. Il ceto medio, una sottile linea che si
va sempre più assottigliando. Adesso aspettiamo il Jobs Act.
Furbo l'imprenditore, geniale il
politico, entrambi fulgidi nel loro italico splendore.
Ps Questo post, pur superando
ampiamente le cinquanta righe, è molto sintetico, accenna e non
spiega, tralascia molte problematiche. Ne sono perfettamente
consapevole. Questo scritto vuole solo gettare le basi ad una serie
di futuri interventi nei quali tratterò le storture odierne del
mercato del lavoro, non da un punto di vista teorico/economico ma
attraverso testimonianze ed esperienze di vita vissuta.
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lunedì 10 novembre 2014
Ri-Partenza bis
“Dai Domenico, stiamo andando
bene, siamo ancora un po' appannati, scriviamo pochino, ma tanto chi
se ne fotte. Miglioreremo. Questo è un blog! E alla fine sai che
conta? Scrivere quando ne abbiamo voglia”.
“Sì Salvo, hai
ragione. Mica deve diventare una schiavitù. Scriviamo quando ne
abbiamo voglia, questo conta”.
Maggio 2013, la linea resta
incandescente, ma si parla per lo più di altro, eventi importanti si
profilano all'orizzonte. Ogni tanto riaffiora nei ricordi dei due
protagonisti che ci sarebbe anche un blog da aggiornare.
“Dai
Salvo, ok che abbiamo un bel chiffari, ma ogni tanto un post lo
potremmo pubblicare! A questo proposito stavo pensando di lanciare
qualche bella rubrica, seminare degli spunti interessanti. Ricordando
comunque che questo è un blog, non deve diventare una schiavitù,
dobbiamo scrivere quando ne abbiamo voglia”.
“Sì Dome, hai
ragione. Ricominciamo a scrivere, bella l'idea delle rubriche, la
prossima volta che ci sentiamo me la spieghi meglio. La parola
d'ordine è: scriviamo quando ne abbiamo voglia”.
Settembre 2013, delle rubriche si è
persa traccia, le ore scorrono liete tra una strategia
fantacalcistica e il tipico cazzeggio pseudofilosofico che tormenta i
trentenni. Le linee si intasano di discorsi da caffè. “Scriviamo
quando ne abbiamo voglia”, dicevano i due sventurati. Propositi
durati lo spazio di un amen e, si badi bene, i nostri non sono certo
quello che si dice timorati di Dio.
Novembre 2014. Il freddo dell'autunno
lombardo ossigena il cervello ed instilla buoni propositi.
L'indignazione rimette in moto idee per troppo tempo anestetizzate
dalla pigrizia. Si spera che dalle parti della Brianza sia la volta
decisiva. Aspettiamo l'arrivo del freddo anche in Sicilia per sapere
se le marce saranno tutte ingranate, o se andremo ancora a
scartamento ridotto. L'importante è scrivere. Quando se ne ha
voglia, ovviamente.
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