Il mercato del lavoro in Italia è poco
flessibile. Questa barzelletta la sentiamo dalla fine degli anni '90.
In quel periodo storico tale formuletta, che poi è diventata mantra
per politici, imprenditori e giuslavoristi, poteva anche avere un
senso. C'era da una parte il settore privato, impastoiato dalle
legittime tutele ottenute dai lavoratori dopo anni di lotte sindacali
ed indebolito dalla spietata concorrenza nata dalla globalizzazione
del mercato. Dall'altra parte, un settore pubblico saturo a dismisura
dopo decenni di assunzioni facili. E nel pubblico, di ogni ordine e
grado, i posti non bastavano mai. Da qui l'invenzione di scivoli e
prepensionamenti (ancora all'inizio degli anni '90 migliaia di
quarantenni mandati a casa dopo appena vent'anni di contributi
versati), per fare posto a nuove assunzioni. Finché la pacchia non è
finita.
Noi italiani, che non amiamo le mezze
misure, siamo passati da un eccesso ad un altro. Dal Bengodi a
Zozzolandia, passando dalla condizione Repubblica delle banane. Per
restare competitivi nei confronti delle imprese estere ed eliminare
una parte degli sprechi che gravano sul bilancio di Enti pubblici,
partecipate ed affini, abbiamo accolto anche nel nostro Paese il
concetto di lavoro flessibile. Declinato alla nostra maniera,
ovviamente. Come? A futti cumpagnu. Tagliando tutto quanto di buono
c'è nel significato di flessibilità e nella sua applicazione (sì
vi assicuro che qualcosa di buono esiste, il tempo indeterminato è
sì bene, ma non è il bene assoluto) e lasciando solo le parti più
amare nel piatto dei lavoratori. Che masticano e sputano, masticano e
sputano, fino a perdere tutti i denti. Travolti da una valanga di
sigle come co.co.co e co.co.pro., finti lavori a progetto e partite
IVA farlocche.
Oggi siamo poco flessibili? Possiamo
dirlo con certezza? Conosco lavoratori talmente flessibili da far
impallidire la contorsionista spagnola amante del conte Mascetti. Con l'aggravante suprema, solo parzialmente giustificata
dalla crisi economica (un giorno bisognerà discutere anche di
questo, personalmente ho perso la memoria della prima volta in cui ho
sentito dire che l'economia occidentale è in “crisi”, un altro
slogan che circola come minimo dalle settimane successive agli
attentati dell'11 settembre 2001). Quale? Abbiamo massacrato una
nazione produttiva, spazzato via ogni forma di solidarietà, tuttavia
senza riuscire ad essere più competitivi nei confronti delle imprese
estere, che ci stanno fagocitando/cancellando dal mercato, e senza
migliorare di una virgola la condizione dei conti pubblici.
Fallimento su tutta la linea. O forse
no? I ricchi sono rimasti comunque ricchi, anzi sono un po' più
ricchi. Il profitto, gente! E gli altri? I poveri sono rimasti
poveri, con il cellulare di nuova generazione e la pay-tv è vero, ma
comunque un po' più poveri. Il ceto medio, una sottile linea che si
va sempre più assottigliando. Adesso aspettiamo il Jobs Act.
Furbo l'imprenditore, geniale il
politico, entrambi fulgidi nel loro italico splendore.
Ps Questo post, pur superando
ampiamente le cinquanta righe, è molto sintetico, accenna e non
spiega, tralascia molte problematiche. Ne sono perfettamente
consapevole. Questo scritto vuole solo gettare le basi ad una serie
di futuri interventi nei quali tratterò le storture odierne del
mercato del lavoro, non da un punto di vista teorico/economico ma
attraverso testimonianze ed esperienze di vita vissuta.
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