mercoledì 12 novembre 2014

Tutti a 90°

Il mercato del lavoro in Italia è poco flessibile. Questa barzelletta la sentiamo dalla fine degli anni '90. In quel periodo storico tale formuletta, che poi è diventata mantra per politici, imprenditori e giuslavoristi, poteva anche avere un senso. C'era da una parte il settore privato, impastoiato dalle legittime tutele ottenute dai lavoratori dopo anni di lotte sindacali ed indebolito dalla spietata concorrenza nata dalla globalizzazione del mercato. Dall'altra parte, un settore pubblico saturo a dismisura dopo decenni di assunzioni facili. E nel pubblico, di ogni ordine e grado, i posti non bastavano mai. Da qui l'invenzione di scivoli e prepensionamenti (ancora all'inizio degli anni '90 migliaia di quarantenni mandati a casa dopo appena vent'anni di contributi versati), per fare posto a nuove assunzioni. Finché la pacchia non è finita.

Noi italiani, che non amiamo le mezze misure, siamo passati da un eccesso ad un altro. Dal Bengodi a Zozzolandia, passando dalla condizione Repubblica delle banane. Per restare competitivi nei confronti delle imprese estere ed eliminare una parte degli sprechi che gravano sul bilancio di Enti pubblici, partecipate ed affini, abbiamo accolto anche nel nostro Paese il concetto di lavoro flessibile. Declinato alla nostra maniera, ovviamente. Come? A futti cumpagnu. Tagliando tutto quanto di buono c'è nel significato di flessibilità e nella sua applicazione (sì vi assicuro che qualcosa di buono esiste, il tempo indeterminato è sì bene, ma non è il bene assoluto) e lasciando solo le parti più amare nel piatto dei lavoratori. Che masticano e sputano, masticano e sputano, fino a perdere tutti i denti. Travolti da una valanga di sigle come co.co.co e co.co.pro., finti lavori a progetto e partite IVA farlocche.

Oggi siamo poco flessibili? Possiamo dirlo con certezza? Conosco lavoratori talmente flessibili da far impallidire la contorsionista spagnola amante del conte Mascetti. Con l'aggravante suprema, solo parzialmente giustificata dalla crisi economica (un giorno bisognerà discutere anche di questo, personalmente ho perso la memoria della prima volta in cui ho sentito dire che l'economia occidentale è in “crisi”, un altro slogan che circola come minimo dalle settimane successive agli attentati dell'11 settembre 2001). Quale? Abbiamo massacrato una nazione produttiva, spazzato via ogni forma di solidarietà, tuttavia senza riuscire ad essere più competitivi nei confronti delle imprese estere, che ci stanno fagocitando/cancellando dal mercato, e senza migliorare di una virgola la condizione dei conti pubblici.

Fallimento su tutta la linea. O forse no? I ricchi sono rimasti comunque ricchi, anzi sono un po' più ricchi. Il profitto, gente! E gli altri? I poveri sono rimasti poveri, con il cellulare di nuova generazione e la pay-tv è vero, ma comunque un po' più poveri. Il ceto medio, una sottile linea che si va sempre più assottigliando. Adesso aspettiamo il Jobs Act.

Furbo l'imprenditore, geniale il politico, entrambi fulgidi nel loro italico splendore.

Ps Questo post, pur superando ampiamente le cinquanta righe, è molto sintetico, accenna e non spiega, tralascia molte problematiche. Ne sono perfettamente consapevole. Questo scritto vuole solo gettare le basi ad una serie di futuri interventi nei quali tratterò le storture odierne del mercato del lavoro, non da un punto di vista teorico/economico ma attraverso testimonianze ed esperienze di vita vissuta.

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