lunedì 24 novembre 2014

Stazione di provincia


La vita di Angelo è tutta lì, sul fondo di una bottiglia. Vino rosso, di quello che costa poco e rincoglionisce tanto. Ubriaco di professione a poco più di cinquant'anni. Mattino, pomeriggio, sera: ogni giorno una ruota che gira uguale. Dopo il tramonto lo trovi alla stazione ferroviaria del paese, appoggiato alla sua bici. Si scola allegro gli ultimi barlumi di lucidità. Additivi chimici addizionati al mosto rendono veleno stordente quello che lui considera nettare. Come faccia ogni sera a tornare incolume a casa su quel trabiccolo a due ruote è mistero poco gaudioso. Angelo non vorrebbe tornare in quel tugurio, sono anni che non vuole più. È vuoto, spogliato di ogni affetto. Moglie e figlio sono andati via, lavoro e dignità scappati insieme a loro. Resta solo il rimpianto, ma Angelo ci sta lavorando. Un'altra bottiglia, una sola, e anche quello sarà un ricordo sbiadito, per questa notte.

Quando Angelo va via, sono le otto di sera, in stazione arriva Andrea. Lui, a differenza del primo, non ha un tetto dove ripararsi. Ventidue anni, ha eletto la sala d'aspetto a casa, una panca di legno a letto. Si siede, distende le gambe, rilassa la schiena, si appisola. Non ha una coperta per ripararsi dal freddo, ma pensa che è giovane, può farcela a resistere. La gente gli passa accanto guardandolo schifata. È sudicio, la sporcizia incrosta la pelle e fa compagnia al puzzo di urina mescolato a quello di birra e sigarette. Punkabbestia, barbone, vagabondo, chiamatelo come preferite. Ad Andrea non importa, le etichette non gli sono mai piaciute. E le altre persone (la "gente normale") lo ripugnano, forse più di quanto lui non faccia loro ribrezzo. Sta sereno, però, le ignora e tiene gli occhi chiusi, a schermare la luce dei neon della sala d'aspetto. Vuole solo dormire, per questa notte.

Vincenzo, per tutti Enzo, li vede entrambi. La mattina alle 7.30, quando va a prendere il treno diretto a Milano, Andrea sta ancora dormendo su quella panchina. La sera, alle 18.30, quando torna in paese dopo una giornata di lavoro, Angelo ha appena iniziato a vuotare la bottiglia. Enzo li odia, perché ha paura. Paura di finire come loro. Solo, abbandonato da tutti. È un precario. Precario del lavoro, precario della vita. L'unica certezza che ha è la data di scadenza sul suo contratto, due mesi a partire da oggi, lavoro a progetto. Con obbligo di presenza in ufficio dalle 9 alle 17.30, ma questo nel contratto non c'è scritto. Zero ferie, zero malattie, tante responsabilità. Un affitto e le bollette da pagare, come tutti. Enzo vede Angelo ed Andrea e si sente sospeso su un filo, come un equilibrista. Forse dopo troverò qualcos'altro, pensa, ho lasciato apposta la Calabria, i miei sforzi saranno premiati. Meglio sognare, per questa notte.

giovedì 20 novembre 2014

I colpevoli sono i morti

Quando diritto e giustizia cozzano, cosa ci resta? Amara rassegnazione, rabbia indignata. Poi basta, poco altro. Impotenza. La notizia che la Corte di Cassazione ha accolto la richiesta del procuratore al processo Eternit, dichiarando la prescrizione per il reato di disastro ambientale doloso a carico del magnate svizzero Stephan Schmidheiny e cancellando così la condanna in secondo grado a 18 anni, ha per molti il sapore dell'ingiustizia e assume i contorni della beffa. Il diritto è salvo.

Nonostante il sostituto procuratore della Suprema Corte Francesco Iacoviello avesse sottolineato come Schmidheiny fosse “responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte”, ha dovuto chiedere lui stesso che fosse prescritto il reato (i fatti si riferiscono a più di trent'anni fa, gli stabilimenti sono chiusi dal 1986), ammettendo che “un giudice tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto”. Cancellando anche i risarcimenti per i familiari delle vittime e per le comunità locali flagellate dai danni provocati dall'amianto. “Non erano oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologie sopravvenute”, sottolinea un comunicato della Corte Suprema dopo l'ondata di sdegno che la sentenza ha suscitato.

In Italia non c'è solo la terra dei fuochi, c'è anche la terra del mesotelioma. Si trova in Piemonte, tra Casale Monferrato, sede della fabbrica dei veleni, e la cava di Balangero, la più grande d'Europa. Tra gli anni '60 e '90 abbiamo riempito il nostro Paese con l'Eternit: lastre, tegole, vasche per la raccolta dell'acqua e tubi. Solo nel 1992 venne vietata l'attività di estrazione, importazione ed esportazione, produzione e commercializzazione dell'amianto e dei prodotti che lo contengono. Il danno ormai era fatto.

Ecco rilanciato il dibattito sulla prescrizione, buono per alimentare le vibranti dichiarazioni dei politici e degli opinionisti. Questa fiamma brucerà sugli altari dei mass media per qualche giorno per poi spegnersi improvvisamente, fino alla prossima sentenza.

Restano in piedi le inchieste sui decessi degli operai, dei loro familiari, dei cittadini esposti al pericoloso minerale. Migliaia di morti e altrettanti malati, chissà quanti ancora, la polvere dell'amianto allunga la sua ombra sulle generazioni future. Il picco delle vittime è previsto per il 2025, le malattie da amianto possono manifestarsi dopo molti anni, a volte anche 40 dalla prima esposizione. La morte non conosce diritto, né si prescrive.

lunedì 17 novembre 2014

Guerra tra poveri

Siamo nel pieno di una guerra. Tappiamoci gli occhi, neghiamo l'evidenza, ma ci siamo dentro fino al collo. Ed è una guerra tra poveri. Poveri che per una generazione si sono illusi di avere svoltato, di essersi messi alle spalle difficoltà e stenti.

Abbiamo conosciuto il benessere. Carne a tavola un giorno sì e l'altro pure, l'auto nuova, vestiti firmati e l'ultimo modello di smartphone. Facciamo i conti con decenni di appagamento dei sensi e di ogni capriccio. Tornare indietro diventa problematico, se non addirittura impossibile. Decadenza. Chi lo spiega a giovani cresciuti tra feticci e status symbol che niente sarà più come prima?

Le periferie bruciano, è caccia al diverso, allo straniero. Si cercano facili colpevoli. Ci rubiamo tutto, finanche la casa. Fotti o sarai fottuto. Siamo in competizione per lavori senza futuro, spesso senza nemmeno la gratificazione di uno stipendio. Sopravviviamo in mezzo a veleni e maleducazione, ruberie e corruzione, violenza e degrado.

Chi dovrebbe trovare le soluzioni per questo letamaio si trastulla tra salotti televisivi e cinguettii. Lo scaricabarile è sport che contempla in Italia svariati campioni mondiali, ciechi nel loro narciso compiacimento. Il virus contagia tutti, anche chi doveva portare una ventata nuova. Quale sarà il nostro futuro?

mercoledì 12 novembre 2014

Tutti a 90°

Il mercato del lavoro in Italia è poco flessibile. Questa barzelletta la sentiamo dalla fine degli anni '90. In quel periodo storico tale formuletta, che poi è diventata mantra per politici, imprenditori e giuslavoristi, poteva anche avere un senso. C'era da una parte il settore privato, impastoiato dalle legittime tutele ottenute dai lavoratori dopo anni di lotte sindacali ed indebolito dalla spietata concorrenza nata dalla globalizzazione del mercato. Dall'altra parte, un settore pubblico saturo a dismisura dopo decenni di assunzioni facili. E nel pubblico, di ogni ordine e grado, i posti non bastavano mai. Da qui l'invenzione di scivoli e prepensionamenti (ancora all'inizio degli anni '90 migliaia di quarantenni mandati a casa dopo appena vent'anni di contributi versati), per fare posto a nuove assunzioni. Finché la pacchia non è finita.

Noi italiani, che non amiamo le mezze misure, siamo passati da un eccesso ad un altro. Dal Bengodi a Zozzolandia, passando dalla condizione Repubblica delle banane. Per restare competitivi nei confronti delle imprese estere ed eliminare una parte degli sprechi che gravano sul bilancio di Enti pubblici, partecipate ed affini, abbiamo accolto anche nel nostro Paese il concetto di lavoro flessibile. Declinato alla nostra maniera, ovviamente. Come? A futti cumpagnu. Tagliando tutto quanto di buono c'è nel significato di flessibilità e nella sua applicazione (sì vi assicuro che qualcosa di buono esiste, il tempo indeterminato è sì bene, ma non è il bene assoluto) e lasciando solo le parti più amare nel piatto dei lavoratori. Che masticano e sputano, masticano e sputano, fino a perdere tutti i denti. Travolti da una valanga di sigle come co.co.co e co.co.pro., finti lavori a progetto e partite IVA farlocche.

Oggi siamo poco flessibili? Possiamo dirlo con certezza? Conosco lavoratori talmente flessibili da far impallidire la contorsionista spagnola amante del conte Mascetti. Con l'aggravante suprema, solo parzialmente giustificata dalla crisi economica (un giorno bisognerà discutere anche di questo, personalmente ho perso la memoria della prima volta in cui ho sentito dire che l'economia occidentale è in “crisi”, un altro slogan che circola come minimo dalle settimane successive agli attentati dell'11 settembre 2001). Quale? Abbiamo massacrato una nazione produttiva, spazzato via ogni forma di solidarietà, tuttavia senza riuscire ad essere più competitivi nei confronti delle imprese estere, che ci stanno fagocitando/cancellando dal mercato, e senza migliorare di una virgola la condizione dei conti pubblici.

Fallimento su tutta la linea. O forse no? I ricchi sono rimasti comunque ricchi, anzi sono un po' più ricchi. Il profitto, gente! E gli altri? I poveri sono rimasti poveri, con il cellulare di nuova generazione e la pay-tv è vero, ma comunque un po' più poveri. Il ceto medio, una sottile linea che si va sempre più assottigliando. Adesso aspettiamo il Jobs Act.

Furbo l'imprenditore, geniale il politico, entrambi fulgidi nel loro italico splendore.

Ps Questo post, pur superando ampiamente le cinquanta righe, è molto sintetico, accenna e non spiega, tralascia molte problematiche. Ne sono perfettamente consapevole. Questo scritto vuole solo gettare le basi ad una serie di futuri interventi nei quali tratterò le storture odierne del mercato del lavoro, non da un punto di vista teorico/economico ma attraverso testimonianze ed esperienze di vita vissuta.

lunedì 10 novembre 2014

Ri-Partenza bis

Settembre 2012, linea telefonica rovente sull'asse Palermo-Milano. 

“Dai Domenico, stiamo andando bene, siamo ancora un po' appannati, scriviamo pochino, ma tanto chi se ne fotte. Miglioreremo. Questo è un blog! E alla fine sai che conta? Scrivere quando ne abbiamo voglia”. 

“Sì Salvo, hai ragione. Mica deve diventare una schiavitù. Scriviamo quando ne abbiamo voglia, questo conta”.

Maggio 2013, la linea resta incandescente, ma si parla per lo più di altro, eventi importanti si profilano all'orizzonte. Ogni tanto riaffiora nei ricordi dei due protagonisti che ci sarebbe anche un blog da aggiornare. 

“Dai Salvo, ok che abbiamo un bel chiffari, ma ogni tanto un post lo potremmo pubblicare! A questo proposito stavo pensando di lanciare qualche bella rubrica, seminare degli spunti interessanti. Ricordando comunque che questo è un blog, non deve diventare una schiavitù, dobbiamo scrivere quando ne abbiamo voglia”. 

“Sì Dome, hai ragione. Ricominciamo a scrivere, bella l'idea delle rubriche, la prossima volta che ci sentiamo me la spieghi meglio. La parola d'ordine è: scriviamo quando ne abbiamo voglia”.

Settembre 2013, delle rubriche si è persa traccia, le ore scorrono liete tra una strategia fantacalcistica e il tipico cazzeggio pseudofilosofico che tormenta i trentenni. Le linee si intasano di discorsi da caffè. “Scriviamo quando ne abbiamo voglia”, dicevano i due sventurati. Propositi durati lo spazio di un amen e, si badi bene, i nostri non sono certo quello che si dice timorati di Dio.

Novembre 2014. Il freddo dell'autunno lombardo ossigena il cervello ed instilla buoni propositi. L'indignazione rimette in moto idee per troppo tempo anestetizzate dalla pigrizia. Si spera che dalle parti della Brianza sia la volta decisiva. Aspettiamo l'arrivo del freddo anche in Sicilia per sapere se le marce saranno tutte ingranate, o se andremo ancora a scartamento ridotto. L'importante è scrivere. Quando se ne ha voglia, ovviamente.