Con l'approvazione da parte del Senato
il cosiddetto Jobs act, la delega sul lavoro, è diventato legge. Per
capire l'impatto che esso potrà avere sul mercato del lavoro
bisognerà aspettare almeno un mesetto, quando arriveranno i decreti
attuativi che delineeranno il vero volto della legge. Per il momento possiamo fare solo delle
considerazioni.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi parla di
svolta. Nel nostro piccolo, di precari/disoccupati che toccano con
mano storture e difficoltà del mercato del lavoro, ci permettiamo di
nutrire forti dubbi. L'impianto del Jobs act in sé non è sbagliato,
alcuni dei punti contenuti nella legge ci piacciono anche, vedi il
tentativo di eliminare co.co.co e co.co.pro. a favore di forme
contrattuali più “garantite”.
Ma ci sono numerosi punti rimasti in
sospeso. E, soprattutto, sono tante le domande senza risposta. Il
problema dell'occupazione in Italia è l'articolo 18? È l'articolo
18 a frenare assunzioni e investimenti? Ci sembra che tutte le parole
che da un anno si riversano sul Jobs act da parte di politici,
sindacati ed opinionisti non tengano mai in considerazione il vero
nocciolo del problema, nel tentativo di sviarlo, di tenerlo alla
larga. Il lavoro non c'è, la produttività latita.
Sì, le leggi sul lavoro vanno bene, il
mercato deve essere disciplinato in modo chiaro perché tra le zone
d'ombra dell'applicazione delle regole (e pensare che ce ne sono già
a migliaia) finora gli imprenditori hanno banchettato sulle spalle
dei lavoratori. Ma che senso hanno le regole se prima non si creano
le premesse per creare lavoro? Non si venga a dire che è stato
l'articolo 18 a tenere lontani dall'Italia gli investitori stranieri.
Pensiamo che le cause siano altre, più strutturali. Le tasse troppo
elevate che stroncano sul nascere qualsiasi tentativo di fare
impresa, per esempio. Le lungaggini burocratiche frutto
dell'elefantiaco apparato statale. La pratica della raccomandazione
diventata nei decenni sistema, poi cancro. Se non hai una conoscenza,
una spintarella, non lavori. Un tempo forse con le tue forze
riuscivi, oggi no. Stop.
Detto questo è d'obbligo aggiungere
che gli stessi investitori stranieri che in passato hanno aperto
fabbriche ed aziende in Italia su questo sistema ci hanno marciato
alla grande, beneficiando di sgravi fiscali e scappando all'estero
non appena questi sono finiti, lasciandosi dietro solo rabbia e cassa
integrazione. Oppure hanno usato il grimaldello della chiusura degli
impianti per ricattare i vari governi che si sono succeduti.
Vogliamo riformare veramente il mercato
del lavoro? Proponiamo agli imprenditori contratti a tempo
indeterminato più convenienti rispetto a quelli a tempo determinato,
con un piccolo sacrificio per i lavoratori. Senza esagerare, perché
l'unico risultato che porta abbassare i salari è deprimere i consumi
interni. Chi ha meno diritti andrebbe pagato di più, per
“costringere” il datore di lavoro ad assumere a tempo
indeterminato. Attualmente succede proprio il contrario. Abbiamo
creato lavoratori di serie A tutelati e che guadagnano di più, e
lavoratori di serie B che costano meno e che possono essere lasciati
a casa in qualsiasi momento, subito sostituiti da altri precari senza
diritti. Un diabolico sistema che invoglia l'imprenditore a mantenere
temporanei a vita i lavoratori, che così sono meno costosi. Nessuno
avrà interesse ad assumere dipendenti precari se sostituendoli
manterrà i benefici di legge che al momento esistono.
L'articolo 18 andava esteso e non
tolto. Riformulato, rivoltato come un calzino, ma esteso. I più
deboli devono essere protetti e non penalizzati. Da circa quindici
anni l'esigenza di flessibilità nel nostro Paese si riflette
esclusivamente sui nuovi entranti nel mercato del lavoro. Una
generazione di perenni precari senza futuro cui si contrappongono
appunto i tutelati. Da una parte quelli che, o per abnegazione
personale o perché sotto pressione da parte del datore di lavoro,
sostengono la baracca e si fanno il cosiddetto mazzo. Dall'altra
quelli che, privi di stimoli ed appagati o sostenuti dalla filosofia
del me ne fotto e difesi ad oltranza dallo statuto dei lavoratori
(che purtroppo non distingue tra lavoratori e fannulloni), hanno una
produttività vicina allo zero. A cui vanno aggiunti anche i
lavoratori delle aziende che ormai non producono più ricchezza, che
sono da tempo fallite, che non hanno mercato, che non servono a
niente, ma che sono diventate un'idrovora di soldi pubblici.
La produttività del Paese è crollata,
bisogna aumentarla. Sono i precari che possono farlo. Oggi la loro
produttività è bassa. Non per colpa loro, ma perché le aziende non
investono su di loro. Stipendi magri, pochi incentivi, scarsa formazione, tante
pretese. La gran parte sono laureati, hanno studiato anni, sono
giovani. Diamo una chance ai precari, scommettiamo sui loro sogni.
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