venerdì 5 dicembre 2014

Addio Articolo 18

Con l'approvazione da parte del Senato il cosiddetto Jobs act, la delega sul lavoro, è diventato legge. Per capire l'impatto che esso potrà avere sul mercato del lavoro bisognerà aspettare almeno un mesetto, quando arriveranno i decreti attuativi che delineeranno il vero volto della legge. Per il momento possiamo fare solo delle considerazioni. 

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi parla di svolta. Nel nostro piccolo, di precari/disoccupati che toccano con mano storture e difficoltà del mercato del lavoro, ci permettiamo di nutrire forti dubbi. L'impianto del Jobs act in sé non è sbagliato, alcuni dei punti contenuti nella legge ci piacciono anche, vedi il tentativo di eliminare co.co.co e co.co.pro. a favore di forme contrattuali più “garantite”.

Ma ci sono numerosi punti rimasti in sospeso. E, soprattutto, sono tante le domande senza risposta. Il problema dell'occupazione in Italia è l'articolo 18? È l'articolo 18 a frenare assunzioni e investimenti? Ci sembra che tutte le parole che da un anno si riversano sul Jobs act da parte di politici, sindacati ed opinionisti non tengano mai in considerazione il vero nocciolo del problema, nel tentativo di sviarlo, di tenerlo alla larga. Il lavoro non c'è, la produttività latita.

Sì, le leggi sul lavoro vanno bene, il mercato deve essere disciplinato in modo chiaro perché tra le zone d'ombra dell'applicazione delle regole (e pensare che ce ne sono già a migliaia) finora gli imprenditori hanno banchettato sulle spalle dei lavoratori. Ma che senso hanno le regole se prima non si creano le premesse per creare lavoro? Non si venga a dire che è stato l'articolo 18 a tenere lontani dall'Italia gli investitori stranieri. Pensiamo che le cause siano altre, più strutturali. Le tasse troppo elevate che stroncano sul nascere qualsiasi tentativo di fare impresa, per esempio. Le lungaggini burocratiche frutto dell'elefantiaco apparato statale. La pratica della raccomandazione diventata nei decenni sistema, poi cancro. Se non hai una conoscenza, una spintarella, non lavori. Un tempo forse con le tue forze riuscivi, oggi no. Stop.

Detto questo è d'obbligo aggiungere che gli stessi investitori stranieri che in passato hanno aperto fabbriche ed aziende in Italia su questo sistema ci hanno marciato alla grande, beneficiando di sgravi fiscali e scappando all'estero non appena questi sono finiti, lasciandosi dietro solo rabbia e cassa integrazione. Oppure hanno usato il grimaldello della chiusura degli impianti per ricattare i vari governi che si sono succeduti.

Vogliamo riformare veramente il mercato del lavoro? Proponiamo agli imprenditori contratti a tempo indeterminato più convenienti rispetto a quelli a tempo determinato, con un piccolo sacrificio per i lavoratori. Senza esagerare, perché l'unico risultato che porta abbassare i salari è deprimere i consumi interni. Chi ha meno diritti andrebbe pagato di più, per “costringere” il datore di lavoro ad assumere a tempo indeterminato. Attualmente succede proprio il contrario. Abbiamo creato lavoratori di serie A tutelati e che guadagnano di più, e lavoratori di serie B che costano meno e che possono essere lasciati a casa in qualsiasi momento, subito sostituiti da altri precari senza diritti. Un diabolico sistema che invoglia l'imprenditore a mantenere temporanei a vita i lavoratori, che così sono meno costosi. Nessuno avrà interesse ad assumere dipendenti precari se sostituendoli manterrà i benefici di legge che al momento esistono.

L'articolo 18 andava esteso e non tolto. Riformulato, rivoltato come un calzino, ma esteso. I più deboli devono essere protetti e non penalizzati. Da circa quindici anni l'esigenza di flessibilità nel nostro Paese si riflette esclusivamente sui nuovi entranti nel mercato del lavoro. Una generazione di perenni precari senza futuro cui si contrappongono appunto i tutelati. Da una parte quelli che, o per abnegazione personale o perché sotto pressione da parte del datore di lavoro, sostengono la baracca e si fanno il cosiddetto mazzo. Dall'altra quelli che, privi di stimoli ed appagati o sostenuti dalla filosofia del me ne fotto e difesi ad oltranza dallo statuto dei lavoratori (che purtroppo non distingue tra lavoratori e fannulloni), hanno una produttività vicina allo zero. A cui vanno aggiunti anche i lavoratori delle aziende che ormai non producono più ricchezza, che sono da tempo fallite, che non hanno mercato, che non servono a niente, ma che sono diventate un'idrovora di soldi pubblici.

La produttività del Paese è crollata, bisogna aumentarla. Sono i precari che possono farlo. Oggi la loro produttività è bassa. Non per colpa loro, ma perché le aziende non investono su di loro. Stipendi magri, pochi incentivi, scarsa formazione, tante pretese. La gran parte sono laureati, hanno studiato anni, sono giovani. Diamo una chance ai precari, scommettiamo sui loro sogni.

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